DEPOSITATE LE MOTIVAZIONI

Sanremo: non erano "furbetti", ecco perché la Corte d'Appello ha confermato l'assoluzione di 8 comunali

La Corte di Appello spiega perché, il 21 gennaio scorso, ha confermato l’assoluzione nei confronti degli 8 dipendenti del Comune di Sanremo

Sanremo: non erano "furbetti", ecco perché la Corte d'Appello ha confermato l'assoluzione di 8 comunali
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La Corte di Appello ha depositato le motivazioni della sentenza che conferma l'assoluzione

 “Conclusivamente (…) non può non rilevarsi come gli elementi acquisiti non consentano di supportare adeguatamente le censure avanzate dal pm avverso la pronuncia assolutoria del primo giudice e di superare le opposte argomentazioni difensive - che offrono una plausibile ricostruzione alternativa rispetto a quella dell'accusa - di talché non può dirsi superata la soglia del ‘ragionevole dubbio’ necessaria per poter pervenire ad una pronuncia di condanna. Tali considerazioni valgono, a fortiori, in un giudizio, quale il presente, nel quale è richiesta, per poter ribaltare una sentenza di assoluzione impugnata dal pm, una motivazione rafforzata”.

Così, nelle motivazioni a firma del presidente estensore, Roberto Carta

la Corte di Appello spiega perché, il 21 gennaio scorso, ha confermato l’assoluzione nei confronti degli 8 dipendenti del Comune di Sanremo, tra cui l’agente di polizia municipale Alberto Muraglia (passato alla storia come il "vigile in mutande"), nell'ambito dell'operazione "Stachanov", che li vedeva accusati di truffa ai danni dello Stato e violazione della Legge Brunetta sul pubblico impiego, per l'infedele timbratura del cartellino. 

Citando la Cassazione, il giudice sottolinea che

“Ogni valutazione antagonista effettuata dal giudice dell'impugnazione per essere legittima deve essere caratterizzala dal serrato confronto con gli argomenti offerti dal primo giudice e dal loro persuasivo superamento” e ammette come: “Gli elementi offerti dal pm, a confutazione delle argomentazioni svolte dal primo giudice, a fondamento della pronuncia assolutoria, non possano ritenersi decisivi, a fronte delle risultanze processuali e dei rilievi avanzati dalle difese degli imputati, sì da non consentire a questa Corte di adempiere al particolare obbligo motivazionale impostogli (nei termini in precedenza descritti) per supportare un ribaltamento della pronuncia assolutoria oggetto di censura. L'appellata sentenza deve essere, pertanto, confermata”.

La Corte non nega che ci siano state delle responsabilità

specie nella consuetudine di avvisare il dirigente della propria assenza dal lavoro per servizio, anziché timbrare il cartellino e precisa: “Le condotte tenute da dirigenti e dipendenti, difformi al quadro normativo e regolamentare, sono certamente rilevanti sotto il profilo disciplinare (e giustificano pienamente le sanzioni irrogate in tale ambito in relazione alle violazioni a ciascuno di essi ascritte ed oggettivamente accertate)”. Discostandosi, poi, dalla tesi del pm e del pg, sottolinea che: “All’irregolarità nell'attestazione della presenza e/o nella giustificazione delle uscite per servizio del dipendente non possa conseguire direttamente ed automaticamente la prova della sua assenza (ovvero dell'ingiustificato allontanamento) dal servizio”.

A quel punto il giudice spiega come l’assenza del dipendente

in realtà non comporti automaticamente la commissione di un reato. “E' ben vero che la Pubblica Accusa riconosce che ‘l'impostazione accusatoria non prevede alcuna presunzione di assenza del dipendente’ (…) salvo tuttavia affermare (…) che la non corretta attestazione della presenza attraverso l'utilizzo delle macchinette marcatempo costituisce ‘una vera e propria prova di natura documentale che può essere superata unicamente da un dato probatorio opposto avente un medesimo valore’. In altri termini, pur avendolo escluso in premessa, la Pubblica accusa finisce per attribuire al dato un valore di presunzione assoluta, superabile solo attraverso una prova contraria, di fatto determinando un’inammissibile inversione dell'onere della prova”.

E conclude: “Ritiene… pur a fronte di innegabili irregolarità nell'attestazione delle presenze e degli allontanamenti per ragioni di servizio, spetti pur sempre alla Pubblica Accusa l'onere di dimostrare che a tali irregolarità siano conseguiti effettive ed ingiustificate assenze ovvero illeciti allontanamenti dal servizio da parte del dipendente, non essendo accettabile il sostanziale automatismo prospettato in tesi accusatoria”.

I nomi dei dieci imputati definitivamente assolti

La Procura di Imperia aveva presentato ricorso contro la sentenza di primo grado emessa dal giudice Paolo Luppi contro otto dei dieci imputati assolti. Oltre ad Alberto Muraglia, sorpreso a timbrare il cartellino in slip per poi rientrare a casa, da qui il “vigile in mutande”, anche: Patrizia Lanzoni, ex coordinatrice degli asili nido; Luigi Angeloni, ex funzionario del servizio economato; Rosella Fazio, dipendente dei servizi sociali; Sergio Morabito, ex impiegato dell'Anagrafe; Paolo Righetto, ex operaio; Roberta Peluffo, ex funzionario del servizio di appalti; Maurizio Di Fazio, ex impiegato dell’archivio.

Facevano parte del collegio difensivo, oltre all’avvocato Alessandro Moroni, anche gli avvocati: Alessandro Mager, Giuseppe Pugliese, Eugenio Aluffi e Carlo Ruffoni.

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