"Aldobrandi mi disse l'ho ammazzata e mi chiese aiuto per disfarsi di alcuni sacchi neri"
”L’ho ammazzata. Lo ha detto, ma non mi ha mai fatto il nome di Sargonia. Ho capito che era lei solo quando ho letto la storia sui giornali”
”L’ho ammazzata. Lo ha detto, ma non mi ha mai fatto il nome di Sargonia. Ho capito che era lei solo quando ho letto la storia sui giornali”.
A parlare è Javonovic Slobodan, un cittadino serbo per anni residente in Svezia
che oggi, davanti alla Corte di Assise, di Imperia, ha deposto come teste al processo per omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili e soppressione di cadavere, che vede sul banco degli imputati Salvatore Aldobrandi, 73 anni, originario di San Sosti (Cosenza), ma da anni residente a Sanremo, accusato di avere ucciso Sargonia Dankha, la ventunenne scomparsa il 13 novembre del 1995 da Linköping, in Svezia. Nel corso della deposizione, Slobodan, che a Linköping gestiva un locale aperto ai soci ed ha allenato diversi club di calcio, fa il gesto della mano destra che taglia la gola dall’alto verso il basso.
Lo stesso conosceva Aldobrandi
che a quanto pare gli avrebbe chiesto di trasportare con la sua auto dei sacchi neri - che si presume contenessero il corpo di Sarognia - con anche dei vestiti da donna. Lui, naturalmente, si è rifiutato nel dubbio che potesse trattarsi di qualcosa di illecito. Per i pm Maria Paola Marrali e Matteo Gobbi, dunque, si tratta di un teste chiave.
E’ così risultato, che prima di confessare di aver ucciso una persona, Aldobrandi si era recato da Slobodan, che conosceva perché frequentava la sua discoteca, Maxim, per chiedere aiuto. "Mi aveva chiesto un aiuto per potare via qualcosa da un appartamento - ricorda -. Mi aveva parlato di sacchi neri grossi della spazzatura. Gli serviva un’auto e qualcuno che la guidasse, doveva andare fuori città. Per aiutarlo, avrebbe pagato 100mila corone. Ho capito che era qualcosa di sporco. Non volevo averci niente a che fare. Ho pensato che volesse incastrarmi, che volesse farmi lasciare le impronte da qualche parte per coinvolgermi in quel brutto affare”.
Nel ripercorrere quei momenti, il teste si ricorda pure che Aldobrandi aveva gli occhi rossi
“Era sudato, si vedeva che c’era qualcosa che non andava. Era nervoso. Era novembre e non faceva caldo, grondava sudore ed era così dannatamente blu intorno agli occhi, che erano rossi all’interno”.
Un comportamento che gli è rimasto impresso, dato che era anche inconsueto: “E’ sempre stata una persona tranquilla, posata, quando l’ho visto in quella situazione, ho capito che era successo qualcosa di grave. Ho fatto la guerra, in Serbia, ricordo quelli sguardi nelle persone sotto stress, gli occhi rossi come quando si fa un’immersione e poi si fuoriesce dall’acqua”.
Che cosa doveva trasportare Aldobrandi? Chiede il pubblico ministero
"Un cadavere e dei vestiti da donna", risponde Slodoban. "Non era facile comunicare, c’erano problemi con la lingua - aggiunge il serbo - Io non parlavo ancora bene svedese. Ma si parlava di un cadavere”.
Il 15 maggio del 2001, sentito una seconda volta dalla polizia svedese, Slodoban riferì la confessione, fattagli da Aldobrandi, di un omicidio. “Che cosa hai fatto?”, aveva chiesto il serbo. E Aldobrandi: "L’ho ammazzata”. E poi quel gesto che Slodoban ricorda bene: il gesto di un uomo che sgozza una donna. "Ha parlato di un’ascia, me lo ricordo”. A quel punto Slodoban rincara la dose, e chiede di nuovo all’italiano: ”Come? Cosa hai fatto brutto idiota?” E lui ha fatto quel movimento, io lo so. Ha confessato, l’ho sentito. Ha detto, ‘l’ho ammazzata’, ma non ha mai detto il nome di Sargonia”. Dopo quelle dichiarazioni, Slodoban ha cacciato malamente Aldobrandi dal suo locale. “Gli ho detto ‘Fuori brutto zingaro, ti do un calcio nelle palle’”.
Fabrizio Tenerelli