A tratti risoluto, a tratti visibilmente commosso: è stata potente, la presentazione del libro “La notte di Riofreddo” (Archivio Storia) scritto dal dottor Claudio Clemente ex comandante del Nocs, la forza speciale – le cosiddette “teste di cuoio” – della Polizia di Stato. L’appuntamento nei giorni scorsi al Casinò di Sanremo, nel Teatro dell’Opera, a margine della rassegna Martedì Letterari.
L’ex comandante dei Nocs: «Ecco la verità su quella notte a Riofreddo»
Il volume ripercorre, dal punto di vista del già ufficiale di Polizia, ora in pensione, la tragica notte a Riofreddo, nel 1997 (al confine tra Lazio e Abruzzo), quando l’operazione per liberare l’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini, sequestrato a scopo di estorsione, culminò con un conflitto a fuoco contro i rapitori e la morte dell’Ispettore Samuele Donatoni. Il tutto, nel pieno della stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia di quarant’anni fa, con l’Anonima Sarda. Nell’inchiesta per omicidio, la stessa squadra di operatori venne posta al centro delle indagni. «Il magistrato – ha raccontato Clemente – ha commesso numerosi errori. Si era convinto che fossimo stati noi a uccidere Samuele, non ha mai indicato il perché. Nonostante ci fossero numerose prove che indicassero che il proiettile che ha colpito “Samu” provenisse dal Kalashikov di uno dei rapitori, era convinto che a sparare fosse stata una calibro 9 della polizia. E c’erano delle macchie di sangue a terra, che contraddicevano la nostra testimonianza riguardo a dove fosse stato colpito. Una perizia ha stabilito che fosse sangue animale. La nostra posizione è stata archiviata, ora Samu può riposare tranquillo e io ho scritto questo libro per riabilitare il mio, il suo e il nome di tutto il reparto».
E si è abbandonato sul filo dei ricordi: «Samuele non lavorava più in squadra con noi. Il giorno prima dell’operazione mi telefonò da Palermo e mi disse “so che lavorate. Posso tornare?” Gli dissi di sì, di prendere un aereo e raggiungerci a Roma. Me lo ricordo affacciato dal mio ufficio, con il suo sorriso buono. Nonostante fosse probabilmente il tiratore migliore al mondo al momento, era un uomo tenero. A lungo ho prensato che se gli avessi detto di no, quel giorno, sarebbe ancora vivo».
«Hanno rintracciato gli assassini il giorno in cui si è aperta la camera ardente di Samuele – ancora Clemente –. Ci hanno chiamati dicendo che la notte avremmo avuto un impegno e che avremmo perso il funerale dell’ispettore. Li abbiamo bloccati in una galleria sulla Roma-L’Aquila. Ne abbiamo ferito solo uno, quello che ha sparato al nostro collega, perché aveva fatto in tempo ad estrarre l’arma e a puntarla contro gli operatori».
E poi ha espresso un tenero aneddoto sulla location: «Sono emozionato a trovarmi in questo Teatro. Quando ero bambino e guardavo il Festival con la mia mamma, si svolgeva ancora qui. Praticamente – ha detto – io sono nato in una caserma di Polizia, perché mio padre era ufficiale. E ci sono anche cresciuto, sempre seguendo le assegnazioni di mio papà. A 19 anni, come percorso naturale, sono entrato nell’Accademia. E poi ho vissuto, quindi, in una caserma per gran parte della mia vita. Quando ho lasciato il servizio attivo e ho lavorato anche per il SISMI (il Servizio Segreto Militare iltaliano, ora dismesso), mi sembrava di non esistere, in un ufficio. Sono nato Nocs e lo sarò per tutta la vita. Devo dire che gli ideali erano già ben radicati in me, ma la passione vera e propria per questo lavoro mi è arrivata con il tempo».
«Ho accettato da tempo l’idea del sacrificio»
«Quando si salva una vita – ha ammesso -, soprattutto quella di un bambino (è accaduto con Augusto De Megni, nel 1991 di appena 10 anni, ndr) è sempre una grande soddisfazione». L’ultima confessione: «Ho sempre avuto paura. Perché è quella sensazione che ti aiuta a valutare i pericoli e a prendere decisioni istantanee. Quando diventa panico è pericoloso, altrimenti è un’alleata preziosa. Paura di morire? Non è retorica, ma se si tratta di sacrificare la mia vita per salvarne un’altra, sono sempre stato pronto a farlo. E’ il mio lavoro e l’ho accettato da tempo».